IL RE È NUDO
un’introduzione al tema di studi della C.G.L.E.M.
Fr∴ A∴ T∴
“Il Cammino della Luce”
Montebelli, Aprile 2016
C’era una volta un re molto vanitoso, che amava i propri abiti sopra ogni cosa. Li adorava a tal punto da cambiarli in continuazione, e provava il massimo piacere nello sfoggiarli davanti ai suoi sudditi. Accadde un giorno, che conoscendo questa sua smodata passione, due truffatori si recarono a corte, e presentandosi come tessitori, proposero al re un nuovo e rivoluzionario tessuto, non soltanto molto bello, anzi il più bello che occhio umano avesse mai visto, ma anche dotato di qualità magiche, per cui solo le persone intelligenti e capaci sarebbero state in grado di vederlo, mentre per tutti gli altri sarebbe risultato invisibile. Il re accettò di buon grado la proposta, soprattutto perché gli si presentava la possibilità di mettere alla prova la capacità e l’intelligenza dei sui servitori e dei suoi sudditi. Chiese quindi ai due forestieri di tessere quella meravigliosa stoffa, e di confezionargli poi un abito che avrebbe indossato al corteo dell’annuale festa del regno.
Così ha inizio una delle più singolari e allegoriche fiabe di Hans Christian Andersen.
Ricordate come prosegue?
I due truffatori si misero al lavoro al telaio, ma naturalmente non avevano nessuna stoffa da tessere. Continuarono nella loro finzione per giorni, non cessando mai di lodare la bellezza e le qualità del… nulla che stavano tessendo ai ministri e ai funzionari che il re mandava per ispezionare il lavoro. Naturalmente questi si guardavano bene dal riferire al re che non vedevano nessuna stoffa, per paura di essere considerati degli incapaci. Per lo stesso motivo, anche il sovrano, quando gli venne presentato il lavoro, dichiarò che la stoffa e gli abiti con essa confezionati erano senza dubbio i più belli che avesse mai visto. Così si presentò alla parata vestito di niente, ed anche allora nessuno dei suoi sudditi osò dire nulla, perché avevano sentito a tal punto decantare la magnificenza e la magia di quegli abiti, che non volevano passare per stupidi o incompetenti dicendo di non vederli. Nessuno, tranne un bambino, che con la voce dell’innocenza esclamò candidamente: “Il re è nudo!”. Un fremito percorse allora la folla, ed anche il re rabbrividì, perché sapevano che il bambino aveva ragione e che fino a quel momento, avevano tutti tenuto per vero solo ciò che gli aveva fatto comodo considerare tale.
Il tema di studi proposto alla Confederazione delle Gran Logge d’Europa e del Mediterraneo investe molteplici aspetti che caratterizzano le dinamiche relazionali tra i popoli del cosiddetto blocco occidentale da una parte, e quelli dell’area arabo-africana di matrice islamica dall’altra, che vedono nel Mediterraneo un crocevia ed un fulcro nel quale quelle dinamiche trovano compimento. Naturalmente le problematiche inerenti a tali relazioni sono complesse e differenziate, e vanno dal fenomeno dell’emigrazione di massa a quello delle guerre e della povertà che lo determinano; dal tentativo di una parte delle popolazioni islamiche di emanciparsi da forme di governo teocratiche, alla resistenza esercitata dai fondamentalisti religiosi; dalla nascita dello stato islamico dell’Isis e dagli attacchi terroristici portati nei luoghi simbolo del benessere occidentale, alle risposte messe in campo dai governi europei, che evidenziano tutte le divisioni interne e le diversità di vedute di quella che si definisce una Unione di Stati. Ma al di là delle loro specificità, sarà possibile ravvisare in tutti questi temi un substrato comune che ha molte attinenze con il racconto di Anderson, perché riguardo ad essi la maggioranza delle persone preferisce un approccio basato su una realtà di comodo alla quale credere e soggiacere, piuttosto che ricercare ed affrontare quanto l’uso della ragione e dell’onestà intellettuale indicherebbe come essere il vero. Vedremo come il nostro principale nemico sia rappresentato dall’ignoranza e dall’ipocrisia, dal manto di perbenismo con il quale la cosiddetta opinione pubblica riveste le proprie prese di posizione, che difende ad oltranza anche di fronte ad opposte evidenze. Ci corre l’obbligo di smascherarle, non solo per amore di verità, ma soprattutto perché siamo consapevoli che non si potranno mai gettare le basi di una effettiva soluzione dei problemi se questi non verranno affrontati nella loro reale natura e sostanza.
Tenteremo oggi di percorre questa via, ben consapevoli in ogni caso che in tale circostanza non potremo fare a meno di effettuare delle generalizzazioni e di tralasciare elementi di altrettanta valenza ed importanza rispetto a quanto tratteremo. Il nostro scopo, tuttavia, non è quello di essere esaustivi e conclusivi, ma al contrario di sollevare dubbi e fornire elementi di riflessione. In effetti è impossibile pensare di arrivare a possedere il quadro completo e definitivo di così tante situazioni complesse che interagiscono tra loro. E’ impossibile pensare di poter formulare al riguardo giudizi univoci e inappellabili, di non farsi prendere dalle emozioni indotte dagli eventi più drammatici, siano essi sentimenti di umana pietà verso il dramma dei migranti, o di rabbia giustizialista nei confronti degli attentati terroristici. E’ altresì impossibile non dare adito a critiche anche feroci, qualunque sia l’argomentazione sostenuta. Del resto, ciò che ciascuno può percepire della realtà è una sua prospettiva, un punto di vista, che partendo da determinate premesse, analizza coerentemente ad esse i fenomeni e formula un giudizio conseguente. Ma appunto di prospettive si tratta, o, per continuare con la nostra metafora, di abiti con i quali abbiamo scelto di rivestire la realtà, cercando di convincere (e di convincerci) che sono i più belli possibili, non rendendoci conto di quanto possano apparire invisibili agli altri. Ecco allora chi ostenta il vestito della bontà, della comprensione, della solidarietà e dell’accoglienza sempre e comunque, e chi invece si ricopre col manto dell’intolleranza, del razzismo, del nazionalismo e della xenofobia. Al di là di queste prospettive, di questi atteggiamenti, di questi rivestimenti, in quanto iniziati massoni, dovremmo invece avere la forza e la capacità di denunciare la nudità del re, di presentare e approcciare le problematiche del nostro tempo per quello che realmente sono, proponendo possibili soluzioni e possibili iniziative che non perseguano altro interesse se non quello del bene dell’umanità. Non il bene delle singole Nazioni, dei singoli Stati, del proprio gruppo sociale, del proprio ceto, del proprio personale tornaconto; occorre agire non assecondando le proprie paure o i propri desideri, ma perseguendo il bene dell’umanità. La prima cosa da fare è spogliarci di ogni forma di pregiudizio e di preconcetto, convincersi che un assassino è tale indipendentemente dalla sua nazionalità o dal suo credo religioso, che un ladro è tale ovunque rubi, che un affamato o un bisognoso merita la stessa solidarietà indipendentemente dal colore della sua pelle, perché siamo tutti figli dell’umana progenie. In quanto massoni, non possiamo e non dobbiamo abdicare alle nostre responsabilità di fronte alla ricerca del vero, consapevoli che è nostro dovere indagare la realtà oltre le apparenze, oltre i luoghi comuni, oltre il “ben pensare” ed i moralismi di ogni genere.
Cominceremo a realizzare il nostro affresco dando conto del tema che maggiormente ne caratterizza il substrato, che rappresenta il perno sul quale anche tutti gli altri argomenti sembrano ruotare, ossia quello religioso, perché non possiamo negare l’importanza che la religione riveste nel caratterizzare soprattutto l’identità dei popoli musulmani, nonché le loro relazioni con i Paesi occidentali. L’Islam infatti non è vissuto semplicemente come espressione della sfera religiosa propria dell’individuo, alla stessa stregua dell’odierno cristianesimo per gli Occidentali, ma esso permea integralmente e totalmente ogni aspetto della vita personale, sociale, giuridica ed economica dei Musulmani. Non vi è situazione che non sia regolata dal Corano o dalla Sunna, ossia dalla raccolta degli aneddoti di quanto il Profeta avesse detto o fatto. Prima ancora che teologia, l’Islam è diritto e ordinamento giuridico al quale l’individuo deve sottomettersi, e shari’a, ossia “legge”, è il termine che più di ogni altro ne caratterizza l’essenza.
Per quanto molto diverse fra loro, ma in quanto tutti consapevoli del fatto che quello religioso ha rappresentato e tuttora rappresenta il primo fattore che ostacola un dialogo fra i popoli, si è molto tentato di trovare elementi che possano accomunare la religione di Maometto con le altre due grandi religioni dell’area mediterranea, l’Ebraica e la Cristiana, nella speranza che facendo leva su di essi possa venir meno il continuo collegarsi alle diversità religiose per giustificare ogni forma di contrasto. E’ su queste premesse che ha preso l’avvio un processo di dialogo interreligioso alla ricerca di basi teologiche a sostegno dei possibili punti di contatto. In particolare si è posto l’accento sul fatto che siano tutte religioni monoteiste, che fanno discendere le proprie origini da un comune patriarca, Abramo, e che tutte e tre si basino sulla rivelazione di Dio raccolta in un libro sacro, per la qual cosa sono anche definite religioni del libro. Ma a ben guardare nessuno di questi elementi può dirsi realmente comune alle tre religioni, o meglio, nessuno di questi elementi è interpretato allo stesso modo o con la stessa valenza.
L’affinità ascrivibile alla comune discendenza abramitica in realtà non va oltre la figura di Abramo stesso, e le differenze emergono nette sin dalla sua immediata discendenza. Nella Bibbia troviamo che l’alleanza stretta tra YHWH e il patriarca, basata sulla promessa divina di garantirgli una discendenza numerosa attraverso la quale tutti i popoli della terra sarebbero stati benedetti, si realizza con la nascita di Isacco, e attraverso lui, giunge sino a Gesù Cristo, per mezzo del quale si compie l’alleanza tra l’uomo e Dio Padre. Nel Corano, Abramo è il primo dei profeti, l’“amico di Dio” la cui discendenza si sviluppa attraverso il figlio primogenito Ismaele, generato con la schiava egiziana Agar, e si compie con Maometto, sigillo dei profeti e ultimo messaggero della volontà divina. Sono Abramo ed Ismaele, ispirati da Dio, a fondare la città santa de La Mecca ed a costruire la Ka’ba, il luogo più sacro dell’Islam. Nel Corano trovano posto alcune delle figure bibliche, compresa quella di Gesù, ma tutte con una connotazione profondamente diversa rispetto a quella ebraico-cristiana. L’Islam ne rivendica la corretta interpretazione, in quanto ultimo in ordine di tempo ad aver ricevuto, attraverso Maometto, la rivelazione divina. Le divergenze, sarebbero quindi da imputare a fraintendimenti ed errori compiuti da Ebrei e Cristiani nell’interpretare la volontà divina.
Anche il presunto legame basato sul monoteismo è da vagliare alla luce di queste ultime considerazioni: non basta sostenere l’esistenza di un unico Dio per dirsi convergenti, occorre vagliare la natura di questo Dio, e nel caso di Ebraismo, Cristianesimo ed Islamismo, questa natura divina è notevolmente differente. Da un lato abbiamo il Dio liberatore degli Ebrei, il Dio giudice e legislatore che ha scelto di legarsi al proprio popolo, fino a giungere all’offerta di sé attraverso l’incarnazione e la crocifissione del Figlio ed il dono dello Spirito, capisaldi della teologia cristiana. Dall’altro il Dio assolutamente trascendente, arbitrario, imprevedibile e inconoscibile dell’Islam, per il quale non potrà mai esserci possibilità alcuna di “incontro” fra Egli e l’uomo, nemmeno per i giusti dopo la morte. Oltre a ciò, l’Islam non considera realmente monoteistico il Cristianesimo, ma “triteista”, a causa della difficoltà a comprendere la natura del dogma trinitario.
Veniamo infine all’argomento del “libro”, ovvero alla possibile vicinanza delle tre religioni dovuta al fatto di fondarsi sulla rivelazione contenuta nel libro sacro. Siamo invece forse di fronte alla più inconciliabile delle divergenze. Non è sufficiente che ciascun credo si basi su quanto rivelato dalla divinità, e che tale rivelazione sia stata registrata in un testo, se quanto è stato rivelato e le modalità con le quali tali rivelazioni sono state divulgate divergono profondamente tra loro. La Bibbia è un testo ispirato da Dio, non dettato, e si è formata nel corso di oltre 10 secoli con varie stratificazioni e successive rielaborazione, con le quali i numerosi redattori hanno interpretato e reso il pensiero divino in modo molteplice e non senza alcune contraddizioni. Il Corano è stato invece redatto in un lasso di tempo relativamente breve, negli anni immediatamente successivi alla morte di Maometto, e riporta esclusivamente quanto Allah ha rivelato al Profeta, senza commenti o interpretazioni attribuibili a quest’ultimo. Ma è soprattutto nell’idea stessa di Dio e del suo rapporto con l’umanità che emergono le maggiori differenze. La Bibbia è fondamentalmente un insieme di storie, il dipanarsi e l’evoluzione del rapporto di Dio con l’uomo, degli interventi di Dio nella storia dell’uomo, tali da determinarne lo sviluppo, fino a giungere alla stessa incarnazione della Parola divina in un uomo. Dio si rivela e si fa uomo tra gli uomini, ne assume su di sé il destino per redimerne l’esistenza. Vi è uno scambio continuo tra Dio e le sue creature, fino al culmine dell’avvento Cristico che è il compimento della Rivelazione e l’inizio di una nuova epoca per l’umanità. Nell’Islam non c’è nessuna forma di partecipazione di Allah nella vita degli uomini, Egli resta un’entità assolutamente trascendente e arbitraria, inconoscibile e incomprensibile, al quale gli uomini possono solo obbedire sperando nella sua misericordia. È il Corano in sé la Rivelazione di Dio, per questo i Sunniti lo dicono increato e custodito presso Allah stesso, considerandolo pertanto immutabile e non soggetto a evoluzioni e/o interpretazioni variabili nel corso dei tempi. Il Dio cristiano immerso nella storia dell’umanità si fa partecipe delle sofferenze umane per redimerle, ed il suo intervenire nella storia serve ad emancipare l’uomo dalle sofferenze. Il Dio dell’Islam, assente e trascendente, è insensibile al dolore dell’uomo, sì che anche l’uomo sembra a sua volta diventare insensibile alle sofferenze proprie ed altrui. Un Dio che non agisce nella storia, fa sì che non vi sia una storia, intesa come tensione verso il progresso e l’emancipazione. Il mondo islamico sembra sospeso tra un passato che non è più e un futuro che non potrà mai essere, con ciò togliendo ogni senso al presente, se non quello di perpetrare se stesso in un fatalistico abbandono alla volontà di Dio.
Tutte le argomentazioni portate a favore di possibili convergenze si rivelano fallaci e illusorie. Non sono che abiti tessuti con stoffa inconsistente e che solo la nostra pervicacia di ricercare a tutti i costi dei compromessi, delle similitudini, degli apparentamenti là dove non ve ne sono ci induce a volerli considerare reali. Dobbiamo invece prendere atto che il re è nudo! Non è necessario forzare un’intesa su elementi inconsistenti. Il dialogo interreligioso dovrebbe basarsi su elementi estranei alla teologia e all’interpretazione delle scritture, richiamandosi esplicitamente al diritto naturale di ogni uomo di vedere rispettata la propria essenza. Solo un contesto laico può garantire questo, dove con laicità non intendiamo il laicismo, ossia la sua degenerazione nel rifiuto di ogni forma religiosa quale unica garanzia per una pacifica convivenza, ma anzi la intendiamo come il solo contesto che possa e debba garantire a ciascuno la libera espressione del proprio credo religioso. Non una forma di rifiuto, ma piuttosto una accoglienza di tutti, per cui la libertà offerta a chiunque di esprimere liberamente il proprio credo religioso senza tema di essere giudicato, o peggio, sconfessato dagli altri, dovrebbe garantire l’eliminazione di ogni possibile attrito. La pluralità religiosa andrebbe considerata una ricchezza, stanti le molteplici prospettive che consentono di dare del Divino, e uno stato laico dovrebbe essere il naturale alveo entro il quale tali prospettive si possono esplorare per libera scelta, consentendo una effettiva adesione alla dimensione metafisica dettata dall’intima convinzione e non dalla tradizione o dalla cultura o dalle leggi dello Stato.
Un tale processo è già in larga misura avvenuto nel mondo occidentale, soprattutto a partire dall’Illuminismo, che ha imposto l’uso della ragione e della volontà positiva come strumenti per intelligere l’esistenza e l’essere. Da allora si è conosciuta una continua evoluzione in ogni settore dello scibile umano, e la netta supremazia ottenuta in campo tecnologico ed economico ha fatto sì che il modello occidentale prendesse il sopravvento e fosse veicolato ovunque. Vi fu un periodo in cui tale predominio aveva anche la forma di una vera e propria occupazione territoriale dei Paesi più arretrati. Oggi, almeno formalmente, la quasi totalità delle nazioni è organizzata in Stati indipendenti e liberi da ingerenze politico-militari altrui; ma l’economia mondiale, che nel frattempo è diventata di tipo prettamente finanziario, continua ad essere gestita da un gruppo molto ristretto di Paesi. Anche l’ultima rivoluzione tecnologica, quella legata alle forme di comunicazione e di controllo delle informazioni, attraverso la rete di internet e dei social network, è diventata un mezzo globale attraverso il quale tutti i valori o pseudo tali dell’Occidente, sono rilanciati in tutto il mondo. In conseguenza di tutto ciò, la fede di noi Occidentali è profondamente mutata. Forse oggi possiamo dirci più figli dell’Illuminismo che del Cristianesimo, ma questo non vuol significare che il progresso scientifico abbia cancellato il sentimento religioso delle persone, piuttosto lo ha poco alla volta depurato dagli elementi di superstizione, spostando l’attenzione dagli effetti alle cause. L’Occidente si sta rendendo conto della nudità del re, con ciò risvegliando poco alla volte le coscienze individuali all’avvento di un nuovo spirito religioso, più a misura d’uomo non perché ci si stia allontanando da Dio, ma al contrario perché la Sua presenza è oggi sentita e vissuta fondamentalmente come intima esperienza interiore.
Sotto questo aspetto è indubbio che l’Islam abbia ancora un lungo cammino da compiere e molti nodi da sciogliere. La conquista della laicità rappresenterà dunque una grande sfida per i popoli musulmani, combattuti tra la convinzione di seguire l’unica e perfetta religione, di voler mantenere intatti gli usi e la legge islamica da una parte, e il desiderio di rendere fruibili i benefici materiali connessi al modello di vita occidentale dall’altra, con ciò dando origine a profonde contraddizioni ed a forti tensioni che provocano conflittualità al loro interno ma anche verso l’esterno. Mi chiedo fino a quando le classi benestanti arabe, coloro che detengono le leve economiche e politiche dei rispettivi Paesi, potranno continuare a far credere di indossare l’abito del perfetto conformismo alle tradizioni dell’Islam, e nel contempo godere di tutti i benefici materiali che il modello di sviluppo occidentale ha prodotto. Dal mio punto di vista, si sono già levate molte voci per gridare che il re è nudo, perché è proprio in tale chiave che ritengo si debba interpretare il movimento noto come Primavera Araba: il tentativo di sottrarre la politica, l’economia e le relazioni sociali dall’ingerenza della sfera religiosa, che vede come un pericolo ed un nemico ogni deviazione dalla shari’a. Sappiamo come il tentativo non abbia avuto successo, ma intanto delle voci si sono levate, ed erano quelle delle generazioni più giovani, più sensibili a pronte a recepire nuove istanze. Gli Stati islamici reprimono ogni forma di dissenso, ma la storia ci insegna che impedire la dialettica interna, considerandola una minaccia anziché una ricchezza, è un indice di decadenza, un’implicita ammissione di debolezza che alla lunga non può che condurre ad un rinnovamento delle istituzioni. Ritengo che da parte occidentale si possa contribuire al processo evitando di condannare e stigmatizzare sistematicamente intere popolazioni per il loro modello di vita perché diverso dal nostro, ma piuttosto stimolando proprio nei giovani la riflessione sulla opportunità di mantenere modelli socio-politici ormai superati dai tempi, senza che con ciò si debba necessariamente compromettere la propria fede religiosa. Non mancheranno le difficoltà, né le resistenze da parte dei più reazionari ed integralisti custodi dell’ortodossia, ma per quanto l’Islam si sforzi di tenere l’evoluzione storica al di fuori del proprio ambito, questa non potrà fare a meno prima o poi di prodursi.
Di fronte ad un tale pressing, i fautori della resistenza non esitano ad agitare lo spettro della jiha’d, la guerra santa, quale minaccia suprema verso quel mondo occidentale sempre più invadente e irrispettoso delle tradizioni del mondo arabo. Anzi, è dovere di ogni buon Musulmano combattere gli infedeli affinché si convertano alla vera religione o periscano nel loro errore. Ma la minaccia della guerra santa è lo spauracchio più evocato anche dagli attivisti occidentali, quale principale argomento per giustificare la necessità di una strategia difensiva e di rifiuto di ogni forma di collaborazione con quel mondo islamico il cui unico scopo sembra essere quello di distruggere chiunque non sia Musulmano. Ora, al di là del fatto che anche fra gli Ebrei ed i Cristiani non mancano gli integralisti maldisposti ad accettare ogni manifestazione di credi differenti dal proprio, è però fuori discussione che sia in atto una recrudescenza del terrorismo a matrice islamica. Ferma restando la più ferma condanna verso tutte le forme di violenza, qualunque ne siano le matrici e le motivazioni, faccio fatica a imputare ad un miliardo di Musulmani la concorde ed univoca volontà di uccidere persone inermi solo perché professano una fede diversa. Sono molto più propenso a ritenere che la jiha’d sia l’ennesimo abito con il quale tanto da una parte quanto dall’altra fa comodo rivestire le azioni terroristiche che insanguinano ormai non solo l’Occidente. Ancora una volta dovremmo avere la forza di gridare che il re è nudo, e che il terrorismo non può essere liquidato semplicemente come l’azione degli integralisti islamici che intendono punire l’Occidente blasfemo e infedele. Esso ha radici più complesse, che affondano nelle paludi dell’affarismo economico-finanziario, negli interessi legati al controllo delle regioni strategicamente più importanti per lo sfruttamento delle risorse naturali. Da Al Qaeda allo Stato islamico dell’Isis, ritengo più probabile considerare il forte integralismo religioso che li caratterizza, come l’elemento di coesione, il sentimento comune su cui si è fatto leva per riunire sotto un’unica bandiera il consenso di persone spinte da eterogenee motivazioni di rivalsa verso l’ingerenza occidentale nel mondo musulmano. L’Isis in particolare si è proclamato stato sovrano, con l’intento dichiarato di riunire il mondo musulmano sotto il proprio governo per ripristinare quella supremazia e quel potere di cui l’Islam godeva nella lontana epoca degli sceicchi, offrendo a suo dire a tutti i musulmani desiderosi di riaffermare la propria identità, una opportunità di riscatto colpendo gli interessi dell’imperialismo occidentale; con quali metodi e quali conseguenze è evidente a tutti.
Il filosofo e medico musulmano Ib-Sina, uno dei più noti dell’antichità, da noi conosciuto con il nome latino di Avicenna, soleva affermare che nella cura delle malattie perniciose, era sì d’uopo affrontare prima i sintomi che manifestavano, a causa dei loro effetti debilitanti sull’organismo, ma occorreva poi passare all’individuazione ed eliminazione delle cause della malattia, per evitare che potesse nuovamente procurare i medesimi sintomi negativi. L’Occidente è oggi impegnato in una dura battaglia per eliminare la minaccia Isis, ma ciò non sarà sufficiente nella misura in cui riteniamo che esso sia solo un sintomo del più generale malessere che investe quella parte del mondo. Una volta debellata la minaccia contingente, sarà necessario affrontarne le cause, se non vogliamo correre il rischio che essa si ripresenti sotto altre sembianze ma con i medesimi devastanti effetti.
Al male si può reagire isolandolo, rendendolo sterile, privo di ulteriori conseguenze che ne possano amplificare il già dannoso effetto iniziale. Occorre isolare l’Isis sottraendogli la fonte di sostentamento, l’appoggio di cui gode fra le popolazioni indigenti e facilmente influenzabili dalla propaganda anti-occidentale, facendo venire meno le ragioni di questo appoggio; in altre parole, occorre intervenire per modificare le condizioni di vita delle popolazioni lasciate ancora oggi ai margini dello sviluppo. Nel corso della storia ha sempre prevalso il dominio di pochi su molti, guerre e conquiste avevano lo scopo di assoggettare le popolazioni più deboli al fine di sfruttarne le ricchezze territoriali. Anche dopo la seconda guerra mondiale e la fine dei regimi coloniali le cose non hanno subito cambiamenti sostanziali: all’occupazione militare si è sostituita, come già sottolineato, una supremazia di tipo economico-finanziario, che vede ben il 50% della ricchezza mondiale controllata da meno di 100 imprese multinazionali. Le redini del potere politico dipendono da quelle finanziarie, che insieme mirano a mantenere le strutture sociali ed economiche invariate, presentandole come le più idonee a garantire il nostro benessere, anche se ciò è causa degli squilibri che lasciano nella povertà buona parte del mondo. Stando così le cose, ed alla luce delle reazioni che sta determinando, possiamo continuare a sostenere che il modello economico oggi predominante sarà in grado di garantire il nostro benessere anche per il futuro?
Ancora una volta, dovremmo avere la forza di dire che il re è nudo!
Ritengo che chiedersi quale politica e quale modello di sviluppo potranno meglio garantire non soltanto il nostro ma anche l’altrui benessere per il futuro, al di là dell’attuale interesse dei singoli soggetti in gioco, sia il solo atteggiamento costruttivo da adottare.
Sostenere tale tesi non significa cedere all’idealismo, non rappresenta facile dietrologia, ma è puro pragmatismo, che sopravanza il mero problema legato alla sconfitta dell’Isis e del terrorismo internazionale. La popolazione mondiale si avvia a raggiungere quota 9 miliardi di persone, la maggior parte delle quali saranno concentrate nei Paesi asiatici e africani, di fede prevalentemente islamica. Riusciremo a reggere la pressione delle loro legittime aspettative, pagando il prezzo delle inevitabili tensioni che l’accrescersi delle disuguaglianze necessariamente recheranno seco?
Io credo che il nostro benessere futuro non possa pensarsi contro il resto del mondo, ma insieme ad esso. Condivisione dovrà essere la parola d’ordine, e non più appropriazione!
Occorre basarsi su un principio di giustizia che tenga in considerazione le esigenze di un intero pianeta, e far sì che questo principio possa essere condiviso da tutte le genti che lo abitano. Ciò richiede di valutare il problema nel suo complesso, richiede il ripensamento dell’accesso alle risorse produttive ed alla ricchezza mondiale. In tempi di globalizzazione dell’economia e delle informazioni non è pensabile mantenere la stragrande maggioranza delle popolazioni ai margini del benessere, non è più sostenibile che pochi Paesi possano consumare il 90% delle risorse e sperare che gli altri se ne restino buoni a guardare, senza conseguenze di alcun tipo. Saremo capaci di sviluppare un nuovo paradigma socio-economico che veda il controllo e lo sfruttamento delle ricchezze da parte di pochi sostituito dalla solidarietà e dalla cooperazione, senza che debba consumarsi quello scontro di civiltà che molti già paventano? Rendere il benessere diffuso, ridare ai popoli il controllo delle proprie risorse rappresenta il modo migliore per garantire il futuro dell’umanità, e di conseguenza anche il nostro. È una visione che solo dei veri e lungimiranti statisti potrebbero avere la capacità di portare avanti, magari in seno agli organismi internazionali già esistenti. Ma in campo politico internazionale si assiste piuttosto al prevalere di interessi di corto respiro, volti alla massimizzazione dei risultati di breve periodo dei singoli Stati rappresentati, vuoi per motivi elettorali che di tornaconto personale.
Intanto, le conseguenze di questa miopia sono sotto gli occhi di tutti e stanno generando un dramma con pochi precedenti, reso ancora più grave dalle reazioni indotte nei Paesi europei, assolutamente prive di quella lungimiranza testé auspicata: mi riferisco ovviamente al dramma dell’esodo verso l’Europa.
Vi è una parte di questo flusso dipendente da situazioni contingenti, come la guerra in atto in Siria e nei territori occupati dall’Isis, che ci auguriamo possa cessare con il cessare delle ostilità. Ma gran parte dei migranti abbandona i propri Paesi soprattutto a causa della povertà e della mancanza di prospettive. Fra le tante problematiche che esso comporta, vi è anche il diffuso timore che l’immigrazione di massa possa condurre al disfacimento del tessuto sociale e dei valori etico-morali che fino ad oggi hanno caratterizzato i Paesi europei, finendo per causare il declino e la possibile scomparsa della loro stessa cultura. Si è giunti a dire che un flusso migratorio incontrollato potrebbe determinare un vero e proprio genocidio nei Paesi di destinazione, come quello che nelle Americhe interessò le nazioni precolombiane e le nazioni pellerossa, con ciò rendendo giustificabili le varie barriere, fisiche, giuridiche e psicologiche, issate per bloccare un tale flusso. Ma forse è proprio la miopia del mondo occidentale la causa dei suoi stessi problemi.
Quello stesso progresso tecnologico alla base del nostro benessere, attraverso la diffusione in ogni parte del mondo dei mezzi di comunicazione di massa, di Internet e dei social network, ha messo in evidenza in tutta la sua brutalità l’enorme divario che esiste fra “nord e sud” del mondo, inducendo nelle società più povere la progressiva presa di coscienza della propria effettiva situazione e l’insorgere del legittimo desiderio di migliorarla. È condannabile l’aspirazione a una vita migliore? E dove poterla tentare se non in quei Paesi che comunicano di sé l’immagine di una società opulenta e felice? Il nostro benessere e la nostra cultura non sono a rischio perché arrivano i migranti, ma i migranti arrivano perché noi stessi abbiamo messo a repentaglio la nostra identità rinunciando alla giustizia, alla capacità di comprendere che è l’umanità intera il patrimonio da salvaguardare e non solo la nostra personale prosperità.
L’esodo deve essere fermato non per i problemi che potrebbe arrecare alle nostre società, ma in quanto è il fenomeno in sé ad essere intrinsecamente disumano, perché lo sono i motivi che lo determinano.
Un cambiamento di prospettiva di tale portata non può esaurirsi nell’ambito di una generazione: esso passa attraverso l’educazione dell’uomo, affinché si recuperi la consapevolezza della reale dimensione umana e del significato della presenza su questo piano. Ciò che auspico è un’umanità in cammino, in evoluzione, che può e deve vivere le trasformazioni non come segnali di declino o di rinuncia alla propria identità, ma piuttosto come volontà precisa di adeguarsi a quanto più e meglio risponda alle reali esigenze degli individui tutti, definite queste sulla base dei diritti naturali che discendono dal fatto stesso dell’esistenza, dell’essere parte di un ordine cosmico che dobbiamo preservare e tutelare. La realtà non è un dato oggettivo, immutabile, indipendente dalla nostra volontà. Operando sulle coscienze individuali e quindi sulla volontà conseguente, possiamo agire per cambiare la realtà. Ciò richiede una vera e propria rivoluzione del processo mentale. Infatti le persone sono normalmente portate a giudicare e a rapportarsi agli altri sulla base dei propri schemi mentali, delle proprie abitudini, tradizioni e leggi, in una parola sulla base della propria cultura, che è andata formandosi e stratificandosi nel corso di molti anni. L’incontro con il nuovo, con il non conosciuto, genera tensioni, paure e dubbi, ai quali i più reagiscono isolandosi e invocando il ritorno al passato, cercando in ogni modo di tenere lontano il problema, rifiutandosi di affrontarlo, di ricercarne le cause e di esplorarne le possibili soluzioni; ed in nome della sicurezza e della tranquillità, sono disposti a rinunciare anche ad alcune delle libertà faticosamente conquistate negli anni.
Questo è esattamente ciò che sta accadendo in Europa in risposta all’esodo che la investe. L’Unione Europea non ha saputo dare una risposta univoca e coraggiosa al fenomeno. La proposta di ripartire fra tutti i Paesi l’onere dell’accoglienza è stato osteggiato da molti, sono stati eretti muri e reintrodotti i controlli alle frontiere. Si finanziano Stati vicini e non appartenenti all’Unione affinché impediscano ai profughi di proseguire nel loro viaggio. La Gran Bretagna paventa la possibile uscita dal consesso ed ecco che ottiene concessioni speciali, in barba alla supposta parità degli Stati membri. La verità è che il nazionalismo e gli interessi particolari dei singoli Stati sono ancora prevalenti, e nelle occasioni di emergenza prendono generalmente il sopravvento rispetto alle intese comuni.
Gli abiti di cui si riveste l’Unione Europea sono ormai lisi e poco credibili. Anche su questo fronte occorrerebbe constatare che il re è nudo. Perché tendiamo a non farlo? Non sappiamo, o non vogliamo farlo, per timore delle conseguenze che dovremmo trarne? In effetti, prenderne atto potrebbe rappresentare quella singolarità, quella asimmetria che ci spingerebbe inevitabilmente e necessariamente a compiere un atto evolutivo, che comporterebbe l’abbandono del “confortevole” mondo che abbiamo occupato fino a questo momento e ci consegnerebbe alla necessità della scoperta, della costruzione di un mondo nuovo, all’esercizio della libertà creatrice così temuta dalle masse e dalle loro gerarchie.
Giunti a questo punto, possiamo concludere il racconto di Anderson. Cosa accade dopo che il fanciullo denuncia la nudità del re? Ebbene, assolutamente nulla:
“Ormai devo condurre questa parata fino alla fine!”, pensò il re, pur sapendosi scoperto. E così si drizzò ancora più fiero e riprese a sfilare, mentre i ciambellani lo seguivano, reggendo un mantello che non c’era per niente.
Difficilmente il potere rinuncia a se stesso, ripensa e modifica se stesso, anche se messo di fronte a evidenti fallimenti. E troverà sempre uno stuolo di cortigiani pronti a seguirlo, perché è da esso che traggono la propria ragione di essere ed il proprio sostentamento. A meno che non intervenga un fatto eversivo, non necessariamente di natura violenta: è eversiva anche una diversa e condivisa presa di coscienza della realtà, purché se ne traggano le conclusioni e si agisca di conseguenza.
Che collocazione può trovare in tutto ciò la Massoneria? Quale ruolo può svolgere in un ambito così complesso e deteriorato? Certamente il primo compito è quello di formare le coscienze secondo la prospettiva che le è propria, ovvero quella basata su una visione della realtà fenomenica non condizionata dai pregiudizi, dai preconcetti, dalla cultura dominante, dagli interessi di questa o quella fazione in gioco, sì che, come abbiamo già detto, ne risulti un quadro quanto più rispondente all’individuazione dei reali bisogni dell’umanità nel suo complesso. Ma non basta. Occorre che assuma un ruolo “eversivo”. Nel corso della sua storia centenaria, ritengo che la Massoneria abbia dato il meglio di sé non solo quando ha correttamente interpretato la natura dei problemi, ma quando, forte di questa corretta interpretazione, si è poi prodigata nella diffusione delle idee forti, delle linee guide capaci di trasformare e definire un’epoca. Al di là di possibili azioni contingenti, nelle quali ciascun adepto potrebbe comunque impegnarsi a titolo personale collaborando con una delle tante associazioni esistenti, come per esempio nell’opera di assistenza ai profughi, trovo che in quanto forma-pensiero la Massoneria possa manifestarsi compiutamente nell’accettare le sfide epocali che richiedono cambi di paradigma culturale. Penso al contributo da essa dato, a titolo di esempio, alla formazione e diffusione del pensiero illuminista, dal quale hanno avuto origine i moderni stati liberali, alla redazione della carta dei diritti dell’uomo, alla formazione di organismi come la Società delle Nazioni prima, e dell’Onu successivamente, al processo Risorgimentale italiano, e via di seguito. Tappe fondamentali nella storia dell’umanità, che hanno richiesto l’impegno di generazioni di uomini.
Anche adesso ci troviamo di fronte ad una sfida generazionale, e la migliore risorsa che abbiamo a disposizione per affrontarla, quella che nel lungo termine potrebbe dare le maggiori garanzie di successo, passa attraverso l’educazione dei giovani, perché sono i più idonei ad accettare le nuove idee.
Il grande scienziato Niels Bohr, uno dei padri della meccanica quantistica, diceva che le nuove idee non si impongono perché gli scienziati ne riconoscono unanimemente la validità, ma perché le nuove generazioni crescono avendole già assimilate.
La Dichiarazione del Millennio, approvata nel 2000 da 186 Capi di Stato e di Governo nel corso della Sessione Speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, indica otto finalità principali da perseguire, i Millennium Goals, e al secondo posto, dopo l’obiettivo di dimezzare la povertà e la fame, vi è quello di fornire una educazione di base universale.
Ecco allora uno scopo degno della Massoneria: sostenere lo sviluppo di programmi di studio omogenei che privilegino il senso della convivenza, della collaborazione e dello scambio culturale, della pari dignità delle persone, dell’interazione fra popoli, affinché le future generazioni possano crescere sentendosi partecipi del più ampio consesso umano piuttosto che cittadini di un singolo stato, e possano altresì ripensare le modalità di convivenza socio-economica in modo da eliminare gli squilibri oggi imperanti.
Affinché tutto ciò non rimanga soltanto un proposito, un primo importante passo che potremmo compiere a livello europeo è quello di utilizzare l’istituto dell’iniziativa legislativa popolare, ovvero effettuare una raccolta di firme nell’ambito dei Paesi dell’Unione a sostegno di una proposta di legge che il Parlamento Europeo avrà poi l’obbligo di analizzare e porre in discussione.
Potremmo definire tale proposta di legge “Carta di Montebelli”, con la quale non solo promuovere l’omogeneizzazione dei programmi di studio per rendere comuni le basi culturali delle future generazioni, ma altresì prevedere per gli studenti delle scuole superiori un periodo obbligatorio di frequenza presso scuole di altri Paesi dell’Unione, per favorire la crescita di veri cittadini europei.
Un primo passo, certo non definitivo né conclusivo, ma considerevole per le prospettive che aprirebbe. Mi rendo conto dell’enormità dell’impegno, ma anche la posta in gioco è estremamente importante, perché da essa potrebbe dipendere in larga misura quel futuro di pacifica convivenza e di benessere diffuso che abbiamo auspicato. Un impegno e una sfida che la Massoneria non solo può raccogliere, ma che può anche vincere, purché lo voglia.
Br∴ A∴ T∴