Un’introduzione allo studio tematico del C.G.L.E.M. “Il Re è nudo”.

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Caro lettore nella forma di saluto appropriata!


C’era una volta un re il cui unico interesse nella vita era vestirsi con abiti alla moda. Continuava a cambiarsi d’abito in modo che la gente potesse ammirarlo. Una volta, due ladri decisero di dargli una lezione. Dissero al re che erano sarti molto bravi e che avrebbero potuto cucirgli un vestito nuovo e delizioso. Sarebbe così leggero e sottile da sembrare invisibile. Solo gli stupidi non potevano vederlo. Il re era molto eccitato e ordinò ai nuovi sarti di iniziare il loro lavoro.


Così inizia una delle favole più particolari e allegoriche di Hans Christian Andersen. Ricorda la continuazione?

Un giorno il re chiese al primo ministro di andare a vedere quanto lavoro avevano fatto i due sarti. Vide i due uomini che muovevano le forbici nell’aria, ma non vide nessuna stoffa! Ha taciuto per paura di essere chiamato stupido e ignorante. Invece, ha elogiato il tessuto e ha detto che era meraviglioso. Finalmente il nuovo abito del re era pronto. Non vedeva nulla, ma anche lui non voleva apparire stupido. Ammirò l’abito e ringraziò i sarti. Gli fu chiesto di sfilare per strada per far vedere a tutti i nuovi abiti. Il re sfilò lungo la strada principale. Il popolo poteva vedere solo un re nudo, ma nessuno lo ammetteva per paura di essere considerato stupido. Stupidamente hanno lodato il tessuto invisibile e i colori. Il re era molto contento. Infine, un bambino gridò: “Il re è nudo!”. Ben presto tutti cominciarono a mormorare la stessa cosa e ben presto tutti gridarono: “Il re non indossa nulla!”.

Il tema di studio proposto dalla Confederazione delle Gran Logge d’Europa e del Mediterraneo coinvolge molti aspetti delle dinamiche relazionali tra i popoli del cosiddetto blocco occidentale da un lato e quelli dell’area islamica arabo-africana dall’altro, con il Mediterraneo come crocevia e chiave di volta in cui tali dinamiche si realizzano. Naturalmente queste relazioni portano avanti problematiche complesse e differenziate, dall’emigrazione di massa alla guerra e alla povertà che la crea; dal tentativo di alcuni popoli islamici di emanciparsi da governi teocratici, all’opposizione portata avanti dai fondamentalisti religiosi; dalla nascita dello Stato Islamico dell’Isis e dagli attentati terroristici in luoghi simbolo del benessere occidentale, alle risposte dei governi europei che evidenziano tutte le divisioni interne e la differenza di vedute di quella che si definisce un’Unione di Stati. Tuttavia, tutti questi temi hanno un substrato comune che presenta molte analogie con il racconto di Anderson, perché la maggior parte delle persone preferisce un approccio basato su una realtà comoda a cui obbedire e in cui credere, piuttosto che indagare e affrontare ciò che la ragione e l’onestà intellettuale ci mostrerebbero come vero. Vedremo come il nostro principale nemico sia rappresentato dall’ignoranza e dall’ipocrisia, dal manto di rispettabilità con cui la cosiddetta opinione pubblica copre le proprie posizioni, difendendole ad oltranza anche di fronte a prove opposte. Abbiamo l’obbligo di smascherarli, non solo per amore della verità, ma soprattutto perché siamo consapevoli che gettare le basi di una soluzione efficace per questo problema è impossibile se non li si affronta nella loro reale natura e sostanza.

Oggi cercheremo di seguire questa strada, ben consapevoli, però, che in queste circostanze non si può fare a meno di fare delle generalizzazioni e di tralasciare altri elementi di pari valore e importanza su questo tema. Il nostro obiettivo, tuttavia, non è quello di essere esaustivi e conclusivi, ma piuttosto di sollevare dubbi e fornire spunti di riflessione. Pensare di avere un quadro completo e definitivo di tante situazioni complesse e intrecciate è impossibile. È impossibile pensare di esprimere giudizi definitivi e inequivocabili, senza farsi prendere dalle emozioni indotte dagli eventi più drammatici, siano essi sentimenti di pietà per la tragedia dei migranti o di rabbia per gli attacchi terroristici. È anche impossibile non suscitare critiche anche feroci, qualunque sia la tesi sostenuta. In fondo, ciò che ognuno può percepire della realtà è la propria prospettiva, un punto di vista che, partendo da alcuni presupposti, analizza i fatti e si fa un’opinione. Ma sono comunque prospettive o, per continuare con la nostra metafora, abiti con cui abbiamo scelto di rivestire la realtà, cercando di convincere gli altri (e noi stessi) che sono i più belli possibili, senza renderci conto di come potrebbero apparire invisibili agli altri. Così abbiamo chi sfoggia l’abito della bontà, della compassione, della solidarietà e dell’ospitalità sempre e comunque, e chi usa il mantello dell’intolleranza, del razzismo, del nazionalismo e della xenofobia. Al di là di queste prospettive, di questi atteggiamenti, di questi rivestimenti, come massoni dovremmo invece avere la forza e la capacità di esporre la nudità del re, di presentare e affrontare i problemi del nostro tempo per quello che realmente sono, proponendo possibili azioni e soluzioni che non perseguano altro interesse che il bene dell’umanità. Non il bene delle singole nazioni, dei singoli Stati, del proprio gruppo sociale, della propria classe, del proprio vantaggio personale; bisogna agire non favorendo le proprie paure o i propri desideri, ma perseguendo il bene dell’umanità. La prima cosa da fare è abbandonare ogni forma di pregiudizio e di preconcetto, convincersi che un assassino è tale indipendentemente dalla sua nazionalità o dalla sua religione, che un ladro è tale ovunque rubi, che un affamato o un bisognoso merita la stessa solidarietà indipendentemente dal colore della sua pelle, perché siamo tutti figli della progenie umana. Come massoni, non possiamo e non dobbiamo negarci la responsabilità della ricerca della verità, consapevoli che è nostro dovere indagare la realtà che si nasconde dietro le apparenze, oltre i luoghi comuni, oltre il conformismo e il moralismo di ogni tipo.

Partiremo dalla questione più importante del substrato del nostro tema, che è il perno su cui sembrano ruotare tutte le altre questioni, cioè quella religiosa, perché non possiamo negare l’importanza che la religione riveste nel caratterizzare l’identità dei popoli musulmani in primis, così come i loro rapporti con i Paesi occidentali. L’Islam infatti non è semplicemente visto come espressione di una sfera religiosa individuale, come lo è oggi il cristianesimo per gli occidentali, ma permea pienamente e completamente ogni aspetto della vita personale, sociale, legale ed economica dei musulmani. Non c’è situazione che non sia regolata dal Corano o dalla Sunnah, cioè la raccolta di aneddoti su ciò che il Profeta ha detto o fatto. Prima ancora della teologia, l’Islam è una legge e un sistema giuridico a cui l’individuo deve sottomettersi, e Shari’a (“legge”) è il termine che più di ogni altro ne caratterizza l’essenza.

Pur essendo molto diversi tra loro, essendo tutti consapevoli che l’aspetto religioso è stato ed è tuttora il principale fattore di ostacolo al dialogo tra i popoli, molti hanno cercato di trovare elementi che possano confrontare la religione di Maometto con le altre due grandi religioni dell’area mediterranea, quella ebraica e quella cristiana, nella speranza che basandosi su questi elementi si possa affievolire il continuo collegamento alle differenze religiose per giustificare qualsiasi forma di conflitto. In quest’ottica è stato avviato un processo di dialogo interreligioso alla ricerca di fondamenti teologici a sostegno di possibili punti di contatto. In particolare, è stato sottolineato come siano tutte religioni monoteiste, come abbiano in comune un patriarca, Abramo, e come tutte e tre si basino sulla rivelazione di Dio registrata in un libro sacro, per cui sono anche chiamate “religioni del Libro”. Ma a un esame più attento, nessuno di questi elementi può essere veramente definito come comune alle tre religioni; o meglio, nessuno di questi elementi viene interpretato allo stesso modo o con lo stesso significato.

L’affinità riconducibile alla comune discendenza abramitica non va in realtà oltre la figura di Abramo stesso, e le differenze emergono chiaramente a partire dai suoi immediati discendenti. Nella Bibbia troviamo che l’alleanza tra YHWH e il patriarca, basata sulla promessa di Dio di concedergli molti discendenti attraverso i quali tutti i popoli della terra sarebbero stati benedetti, si realizza con la nascita di Isacco e attraverso di lui arriva fino a Gesù Cristo, attraverso il quale si compie l’alleanza tra l’uomo e Dio Padre. Nel Corano, Abramo è il primo dei profeti, l'”amico di Dio” la cui linea viene portata avanti dal figlio primogenito Ismaele, generata con la schiava egiziana Agar e realizzata con Maometto, Sigillo dei Profeti e messaggero finale della volontà di Dio. Abramo e Ismaele, ispirati da Dio, fondano la città santa della Mecca e costruiscono la Ka’ba, il luogo più sacro dell’Islam. Nel Corano sono presenti alcune figure bibliche, tra cui Gesù, ma tutte con una connotazione molto diversa rispetto alla tradizione ebraico-cristiana. L’Islam sostiene di avere l’interpretazione corretta, essendo l’ultimo in ordine cronologico ad aver ricevuto, attraverso Maometto, la rivelazione divina. Le differenze sarebbero quindi da attribuire a malintesi ed errori commessi da ebrei e cristiani nell’interpretare la volontà divina.

Anche il presunto legame basato sul monoteismo va valutato alla luce di queste considerazioni: non basta sostenere l’esistenza di un unico Dio per essere definiti convergenti, occorre esaminare la natura di questo Dio e nel caso di ebraismo, cristianesimo e islam questa natura divina è molto diversa. Da un lato abbiamo il Dio liberatore degli ebrei, il Dio giudice e legislatore che ha scelto di legarsi al suo popolo, anche offrendosi attraverso l’incarnazione e la crocifissione del Figlio e il dono dello Spirito, capisaldi teologici del cristianesimo. Dall’altra, il Dio assolutamente trascendente, arbitrario, imprevedibile e inconoscibile dell’Islam, per il quale non ci può mai essere alcuna possibilità di “incontro” tra Lui e gli uomini, nemmeno per i giusti dopo la morte. Inoltre, l’Islam non considera il cristianesimo veramente monoteista, ma “triteista”, a causa della difficoltà di comprendere la natura del dogma trinitario.

Parliamo infine del “Libro”, cioè della possibile affinità delle tre religioni dovuta al fatto che si basano sulla rivelazione contenuta nel libro sacro. In realtà ci troviamo di fronte forse alla differenza più incompatibile. Non è sufficiente che ogni religione si basi su ciò che è stato rivelato dalla divinità e che questa rivelazione sia stata registrata in un testo, se ciò che è stato rivelato e i modi in cui queste rivelazioni sono state predicate differiscono notevolmente gli uni dagli altri. La Bibbia è un testo ispirato, non dettato, da Dio, e si è formato nel corso di oltre 10 secoli con vari strati e successive revisioni, con cui molti scrittori hanno interpretato il pensiero divino trasmettendolo in molti modi e non senza alcune contraddizioni. Il Corano è stato invece scritto in un periodo di tempo relativamente breve, negli anni immediatamente successivi alla morte di Maometto, e riporta solo ciò che Allah ha rivelato al Profeta, senza commenti o interpretazioni del suo profeta. Ma è soprattutto nell’idea stessa di Dio e del suo rapporto con l’umanità che emergono le maggiori differenze. La Bibbia è fondamentalmente una serie di racconti, che raccontano lo svolgersi e l’evolversi del rapporto di Dio con l’umanità, dell’intervento di Dio nella storia umana, in modo tale da determinarne lo sviluppo, fino ad arrivare all’incarnazione stessa della Parola divina in un uomo. Dio si rivela e si fa uomo tra gli uomini, prende su di sé il loro destino per redimere la loro esistenza. C’è uno scambio continuo tra Dio e le sue creature, fino all’avvento del Cristo che è il compimento della Rivelazione e l’inizio di una nuova era per l’umanità. Nell’Islam non esiste alcuna forma di partecipazione di Allah alla vita degli uomini, Egli rimane un’entità assolutamente trascendente e arbitraria, inconoscibile e incomprensibile, alla quale gli uomini possono solo obbedire sperando nella sua misericordia. Il Corano è di per sé la rivelazione di Dio, per questo i sunniti lo dicono increato e custodito da Allah stesso, considerandolo immutabile e non soggetto a modifiche e/o interpretazioni nel tempo. Il Dio cristiano immerso nella storia dell’umanità si rende partecipe della sofferenza umana per redimerla, e la sua azione nella storia serve a emancipare l’umanità dalla sofferenza. Il Dio dell’Islam, assente e trascendente, è insensibile alla sofferenza degli esseri umani, tanto che l’umanità stessa sembra a volte diventare insensibile alla propria sofferenza (e a quella degli altri). Un Dio che non agisce nella storia non crea la storia, nel senso di tendere al progresso e all’emancipazione. Il mondo islamico sembra sospeso tra un passato che non esiste più e un futuro che non ci sarà mai, privando così il tempo presente di qualsiasi significato, se non quello di perpetuarsi in un fatalistico abbandono alla volontà di Dio.

Tutti gli argomenti portati a favore di possibili convergenze si sono rivelati ingannevoli e illusori. Non sono altro che abiti fatti di una stoffa inconsistente, e solo la nostra ostinazione a cercare a tutti i costi compromessi, somiglianze, relazioni dove non ce ne sono, ci porta a considerarli reali. Dobbiamo invece notare che il re è nudo!

Non è necessario forzare un accordo su elementi inconsistenti. Il dialogo interreligioso dovrebbe basarsi su elementi estranei alla teologia e all’interpretazione delle Scritture, facendo esplicito riferimento al diritto naturale di ogni uomo di vedere rispettata la propria essenza.

Solo un contesto laico può garantirlo, dove intendiamo il laicismo anziché il laicismo, cioè la sua degenerazione nel rifiuto di ogni forma di religione come unica garanzia per una convivenza pacifica, ma piuttosto lo intendiamo come l’unico contesto che può e deve garantire a tutti la libera espressione delle proprie convinzioni religiose.

Non una forma di negazione, ma piuttosto un’accettazione da parte di tutti, per cui la libertà offerta a chiunque di esprimere liberamente il proprio credo religioso senza timore di essere giudicato o, peggio, rinnegato dagli altri, dovrebbe garantire l’eliminazione di ogni possibile attrito.

La pluralità religiosa dovrebbe essere considerata una ricchezza, data la molteplicità delle prospettive del Divino fornite, e uno Stato laico dovrebbe essere l’ambiente naturale all’interno del quale queste prospettive possono essere esplorate per scelta, consentendo un’effettiva adesione alla dimensione metafisica dettata dall’intima convinzione e non dalla tradizione o dalla cultura o dalla legge dello Stato.

Tale processo è già ampiamente avvenuto nel mondo occidentale, soprattutto a partire dall’Illuminismo, che ha imposto l’uso della ragione e della buona volontà come strumenti per comprendere l’esistenza e l’essere.

Da allora si è verificata una continua evoluzione in ogni campo della conoscenza umana, e la netta supremazia ottenuta in ambito tecnologico ed economico ha fatto sì che il modello occidentale prendesse il sopravvento e venisse veicolato ovunque.

C’è stato un periodo in cui tale dominio ha assunto anche la forma di una vera e propria occupazione territoriale dei Paesi più arretrati.

Oggi, almeno formalmente, quasi tutti i Paesi sono organizzati in Stati indipendenti, liberi da interferenze politiche e militari altrui; ma l’economia mondiale, che nel frattempo è diventata un’economia puramente finanziaria, è ancora gestita da un gruppo molto ristretto di Paesi. Anche l’ultima rivoluzione tecnologica, quella legata alle forme di comunicazione e controllo dell’informazione, attraverso Internet e i social network, è diventata un mezzo globale attraverso il quale tutti i valori o pseudo-valori dell’Occidente sono stati rinnovati a livello mondiale.

In conseguenza di tutto ciò, la fede di noi occidentali è profondamente cambiata.

Forse oggi possiamo considerarci più figli dell’Illuminismo che del Cristianesimo, ma questo non significa che il progresso scientifico abbia cancellato il sentimento religioso della gente, anzi, si è gradualmente purificato da elementi superstiziosi, spostando l’attenzione dagli effetti alle cause. L’Occidente si sta rendendo conto della nudità del re, risvegliando così un po’ alla volta le coscienze individuali all’avvento di un nuovo spirito religioso, più a misura d’uomo, non perché ci stiamo allontanando da Dio, ma piuttosto perché la sua presenza è ora sentita e vissuta fondamentalmente come un’intima esperienza interiore.

A questo proposito, non c’è dubbio che l’Islam abbia ancora molta strada da fare e molti problemi da risolvere.

La conquista della laicità è quindi una grande sfida per i popoli musulmani, combattuti tra la convinzione di seguire la religione unica e perfetta, di voler mantenere intatti i costumi e la legge islamica da un lato, e il desiderio di rendere disponibili i benefici materiali legati al modello di vita occidentale dall’altro, dando così origine a profonde contraddizioni e forti tensioni che provocano conflitti al loro interno ma anche verso l’esterno.

Mi chiedo fino a quando le classi alte arabe, quelle che detengono le leve economiche e politiche dei rispettivi Paesi, continueranno a fingere di indossare l’abito della perfetta conformità alle tradizioni dell’Islam, e allo stesso tempo a godere di tutti i benefici materiali che il modello di sviluppo occidentale ha prodotto. Dal mio punto di vista, ci sono già molte voci che gridano che il re è nudo, perché è proprio in questa chiave che credo si debba interpretare il movimento noto come Primavera araba: il tentativo di sottrarre la politica, l’economia e le relazioni sociali all’ingerenza della sfera religiosa, che vede come un pericolo e un nemico ogni deviazione dalla Shari’a.

Sappiamo come il tentativo non sia andato a buon fine, ma nel frattempo le voci si sono levate, ed erano quelle delle generazioni più giovani, più sensibili e pronte ad accogliere nuove istanze. Gli Stati islamici reprimono ogni dissenso, ma la storia ci insegna che impedire il dialogo interno, considerandolo una minaccia piuttosto che una risorsa, è un indice di decadenza, un’implicita ammissione di debolezza che alla lunga non può che portare a un rinnovamento delle istituzioni.

Credo che l’Occidente possa contribuire a questo processo non condannando e stigmatizzando sistematicamente intere popolazioni per il loro stile di vita diverso dal nostro, ma stimolando la riflessione dei propri giovani sul mantenimento o il superamento di modelli sociali e politici superati, senza per questo dover compromettere la propria fede religiosa. Ci saranno difficoltà e resistenze da parte dei guardiani più reazionari e fondamentalisti dell’ortodossia, ma per quanto riguarda gli sforzi dell’Islam di mantenere l’evoluzione storica al di fuori del suo campo d’azione, non può che verificarsi prima o poi.

Di fronte a tali pressioni, i fautori della resistenza non esitano a sollevare lo spettro della jiha’d, o guerra santa, come minaccia principale al mondo occidentale sempre più invadente e irrispettoso delle tradizioni del mondo arabo. In effetti, è dovere di ogni buon musulmano combattere gli infedeli per farli convertire alla vera religione, o perire nel loro errore. Ma la minaccia della guerra santa è lo spauracchio ancora più grande evocato dagli attivisti occidentali, come argomento principale per giustificare la necessità di una strategia difensiva e il rifiuto di ogni forma di cooperazione con il mondo islamico, il cui unico scopo sembra essere quello di distruggere chiunque non sia musulmano.

Ora, al di là del fatto che anche tra gli ebrei e i cristiani non mancano i fondamentalisti mal disposti ad accettare qualsiasi espressione di credo diverso dal proprio, è comunque fuori discussione che sia in atto una recrudescenza del terrorismo islamico.

Nonostante la più ferma condanna di ogni forma di violenza, a prescindere dalle sue matrici e motivazioni, non posso certo imputare a un miliardo di musulmani la volontà unanime e inequivocabile di uccidere persone innocenti solo perché professano una fede diversa. Sono molto più propenso a credere che la jiha’d sia l’ennesimo vestito con cui tanto da una parte quanto dall’altra, si adatta a vestire le azioni terroristiche che causano spargimenti di sangue ormai non solo in Occidente. Ancora una volta dovremmo avere la forza di gridare che il re è nudo e che il terrorismo non può essere semplicemente liquidato come l’azione di estremisti islamici che intendono punire l’Occidente blasfemo e infedele. Ha radici complesse, che affondano nelle paludi degli affari economici e finanziari, negli interessi legati al controllo delle regioni strategicamente più importanti del mondo per lo sfruttamento delle risorse naturali. Da Al Qaeda allo Stato Islamico dell’Isis, mi sento più propenso a considerare il forte fondamentalismo religioso che li caratterizza come una forza coesiva, il sentimento comune su cui si sono basati per riunire sotto un’unica bandiera il consenso di persone spinte da motivazioni eterogenee di vendetta contro l’ingerenza occidentale nel mondo musulmano. L’Isis, in particolare, si è proclamato Stato sovrano, con l’intenzione dichiarata di unire il mondo musulmano sotto il suo governo per ripristinare la supremazia e il potere che l’Islam deteneva nella lontana epoca degli sceicchi, offrendo a tutti i musulmani desiderosi di riaffermare la propria identità, un’occasione di riscatto che colpisce gli interessi dell’imperialismo occidentale; con quali metodi e quali conseguenze è evidente a tutti.

Il filosofo e medico musulmano Ibn-Sina, uno dei più noti dell’età antica, da noi conosciuto con il nome latino di Avicenna, era solito affermare che nel trattamento delle malattie perniciose, era sì da affrontare prima che si manifestassero i sintomi, a causa dei loro effetti debilitanti sull’organismo, ma era necessario poi passare all’identificazione e all’eliminazione delle cause della malattia, per evitare che potesse nuovamente procurare gli stessi sintomi negativi. L’Occidente è ora impegnato in una dura battaglia per eliminare la minaccia dell’Isis, ma questo non sarà sufficiente nella misura in cui crediamo che sia solo un sintomo di un malessere più generale che colpisce quella parte del mondo. Una volta sradicata la minaccia contingente, bisognerà affrontarne le cause, se non si vuole correre il rischio che si ripresenti sotto altra forma ma con gli stessi effetti devastanti. Al male si può reagire isolandolo, rendendolo sterile, senza che altre conseguenze possano amplificare il già dannoso effetto iniziale. Bisogna isolare l’Isis sottraendogli la fonte di sostentamento, il sostegno di cui gode tra le popolazioni povere e facilmente influenzabili dalla propaganda anti-occidentale, eliminando così le ragioni di questo sostegno; in altre parole, è necessario agire per cambiare le condizioni di vita delle popolazioni ancora lasciate ai margini dello sviluppo. Nel corso della storia ha sempre prevalso il dominio di pochi su molti, le guerre e le conquiste avevano lo scopo di sottomettere le popolazioni più vulnerabili al fine di sfruttarne i beni territoriali. Anche dopo la seconda guerra mondiale e la fine dei regimi coloniali, le cose non sono cambiate sostanzialmente: all’occupazione militare si è sostituita, come già detto, una supremazia di tipo economico-finanziario, che vede ben il 50% della ricchezza mondiale controllata da meno di 100 multinazionali. Le redini del potere politico dipendono da quelle finanziarie, che insieme mirano a mantenere inalterate le strutture sociali ed economiche, presentandole come le più adatte a garantire il nostro benessere, anche se sono la causa degli squilibri che lasciano in povertà gran parte del mondo. Stando così le cose, e alla luce delle reazioni che si stanno determinando, possiamo continuare a dire che il modello economico prevalente oggi sarà in grado di garantire il nostro benessere per il futuro?

Anche in questo caso, dovremmo avere la forza di dire che il re è nudo!

Credo che chiedersi quale politica e quale modello di sviluppo possa garantire meglio il nostro e l’altrui benessere in futuro, al di là dell’interesse attuale dei singoli soggetti coinvolti, sia l’unico approccio costruttivo da adottare.

Sostenere una simile tesi non significa cedere all’idealismo, non è una facile cospirazione, ma è puro pragmatismo, che supera il mero problema legato alla sconfitta dell’Isis e del terrorismo internazionale. La popolazione mondiale raggiungerà quasi 9 miliardi di persone, la maggior parte delle quali si concentrerà nei Paesi asiatici e africani, soprattutto di fede islamica. Siamo in grado di gestire la pressione delle loro legittime aspettative, pagando il prezzo delle inevitabili tensioni che la crescita della disuguaglianza porterà necessariamente con sé?

Credo che il nostro benessere futuro non possa essere pensato contro il resto del mondo, ma insieme ad esso. La parola d’ordine deve essere “condivisione” e non più “appropriazione”!

Dobbiamo basarci su un principio di giustizia che tenga conto delle esigenze di un intero pianeta e fare in modo che questo principio possa essere condiviso da tutti i popoli che lo abitano. Ciò richiede una valutazione del problema nel suo complesso, un ripensamento dell’accesso alle risorse produttive e alla ricchezza del mondo. In tempi di globalizzazione dell’economia e dell’informazione non è più concepibile tenere la stragrande maggioranza della popolazione ai margini del benessere, non è più sostenibile che pochi Paesi possano consumare il 90% delle risorse e sperare che gli altri stiano tranquilli a guardare, senza conseguenze di alcun tipo. Saremo in grado di sviluppare un nuovo paradigma socio-economico che vede il controllo e lo sfruttamento della ricchezza da parte di pochi sostituito dalla solidarietà e dalla cooperazione, senza che si verifichi lo scontro di civiltà che molti già temono? Fare prosperità diffusa, restituire al popolo il controllo delle proprie risorse è il modo migliore per garantire il futuro dell’umanità, e quindi anche il nostro.

È una visione che solo uomini di Stato autentici e lungimiranti potrebbero avere la capacità di portare avanti, anche negli organismi internazionali già esistenti. Ma nell’arena politica internazionale assistiamo piuttosto al prevalere di interessi miopi, volti a massimizzare i risultati a breve termine dei singoli Stati rappresentati, per ragioni elettorali o di guadagno personale.

Nel frattempo, le conseguenze di questa miopia sono sotto gli occhi di tutti e stanno generando un dramma con pochi precedenti, aggravato dalle reazioni indotte nei Paesi europei, assolutamente privi di quella lungimiranza che abbiamo appena invocato: mi riferisco ovviamente al drammatico esodo verso l’Europa.

Una parte di questo flusso dipende da situazioni contingenti, come la guerra in corso in Siria e nei territori occupati dall’ISIS, che speriamo finisca con la cessazione delle ostilità. Ma la maggior parte dei migranti lascia il proprio Paese soprattutto a causa della povertà e della mancanza di prospettive. Tra le tante sfide che pone, c’è anche la diffusa preoccupazione che l’immigrazione di massa porti alla disintegrazione del tessuto sociale e dei valori etici e morali che finora hanno caratterizzato i Paesi europei, causando alla fine il declino e la potenziale scomparsa della loro stessa cultura. Alcuni sostengono che un flusso migratorio incontrollato potrebbe portare a un vero e proprio genocidio nei Paesi di destinazione, come quello avvenuto nelle Americhe nei confronti delle popolazioni precolombiane e amerindie, giustificando così le varie barriere fisiche, legali e psicologiche erette per bloccare tale flusso. Ma forse la miopia del mondo occidentale è di per sé la causa dei suoi problemi.

Quello stesso progresso tecnologico alla base del nostro benessere, attraverso la diffusione mondiale dei mass media, di Internet e dei social network, ha mostrato in tutta la sua brutalità l’enorme divario tra il “nord e il sud” del mondo, rendendo le società più povere consapevoli della loro reale situazione e creando un legittimo desiderio di migliorarla. Possiamo condannare l’aspirazione a una vita migliore? E dove può essere alimentato se non in quei Paesi che mostrano le immagini di una società ricca e felice? La nostra cultura e il nostro benessere non sono a rischio a causa dei migranti, ma arrivano perché abbiamo messo a rischio la nostra identità rinunciando alla giustizia, alla comprensione che il patrimonio da salvaguardare è l’intera umanità, non solo il nostro benessere.

L’esodo deve essere fermato non per i problemi che potrebbe causare alla nostra società, ma perché l’evento stesso è intrinsecamente disumano, perché tali sono le ragioni che lo provocano.

Un cambiamento di prospettiva di questa portata non può esaurirsi nell’arco di una generazione: passa attraverso l’educazione dell’umanità, per recuperare la consapevolezza della reale dimensione umana e del significato della presenza di questo piano. Quello che auspico è un’umanità in cammino, in evoluzione, che può e deve vivere le trasformazioni non come segni di declino o come rinuncia alla propria identità, ma piuttosto come chiara volontà di adattarsi a ciò che è meglio per le reali esigenze di tutti gli individui, definite sulla base dei diritti naturali dell’esistenza stessa, dell’essere parte di un ordine cosmico che dobbiamo preservare e proteggere. La realtà non è oggettiva, immutabile, indipendente dalla nostra volontà. Lavorando sulle coscienze individuali e poi sulle volontà successive, possiamo cambiare la realtà. Ciò richiede una vera e propria rivoluzione del processo mentale. Infatti, le persone sono solite giudicare e relazionarsi con gli altri sulla base dei loro schemi di pensiero, delle loro abitudini, delle loro tradizioni e delle loro leggi, in una parola sulla base della loro cultura, che si è formata e stratificata nel corso di molti anni. L’incontro con il nuovo, con l’ignoto, genera tensioni, paure e dubbi, ai quali la maggior parte delle persone reagisce isolandosi e invocando un ritorno al passato, cercando in tutti i modi di tenere lontano il problema rifiutandosi di affrontarlo, di ricercare le cause degli insuccessi e di esplorare le possibili soluzioni; e in nome della sicurezza e della tranquillità, sono disposti a rinunciare a una parte della loro libertà (così duramente guadagnata negli anni).

Questo è esattamente ciò che sta accadendo in Europa in risposta all’esodo in arrivo. L’Unione europea non è stata in grado di dare una risposta chiara e coraggiosa a questo evento. La proposta di dividere l’onere di accogliere gli immigrati tra tutti i Paesi è stata osteggiata da molti, sono stati eretti muri e sono stati reintrodotti i controlli alle frontiere. I Paesi vicini che non fanno parte dell’Unione vengono finanziati per impedire ai rifugiati di continuare la loro migrazione. La Gran Bretagna minaccia di uscire dall’assemblea e riceve concessioni, nonostante la presunta uguaglianza di tutti gli Stati membri. La verità è che il nazionalismo e gli interessi particolari dei singoli Paesi sono ancora prevalenti e, in situazioni di emergenza, prevalgono generalmente sulle intese comuni.

Gli abiti con cui l’Unione europea si copre sono ormai logori e poco credibili. Dovremmo vedere che il re è di nuovo nudo. Perché non lo facciamo? Non possiamo (o non vogliamo) farlo, temendo le conseguenze che dovremmo dedurre da questo? Infatti, capirlo potrebbe rappresentare la singolarità, l’asimmetria che ci spingerebbe inevitabilmente e necessariamente a compiere un atto evolutivo che porterebbe all’abbandono del mondo “comodo” che ci siamo presi finora e ci consegnerebbe alla necessità della scoperta, della creazione di un nuovo mondo, utilizzando la libertà creativa tanto temuta dalle masse e dalle loro gerarchie.

A questo punto, possiamo concludere la storia di Anderson. Cosa succede dopo che il bambino dichiara la nudità del re? Beh, assolutamente nulla:

L’Imperatore rabbrividì, perché sospettava che avessero ragione. Ma pensò: “Questa processione deve continuare”. Così camminò più orgoglioso che mai, mentre i suoi nobili tenevano alto il treno che non c’era affatto.

È improbabile che il potere rinunci a se stesso, ripensi e modifichi se stesso, anche di fronte a fallimenti evidenti. E troverà sempre una schiera di sicofanti pronti a seguirlo, perché sono la fonte del suo essere e del suo sostentamento. A meno che non arrivi un evento sovversivo, non necessariamente di natura violenta: anche una diversa e condivisa consapevolezza del è sovversiva, purché si traduca in azione.

Dove può collocarsi la Massoneria in tutto questo? Che ruolo può avere in un quadro così complesso e deteriorato? Certamente il primo compito è quello di formare le coscienze secondo la propria prospettiva: una visione della realtà non condizionata dai pregiudizi, dai preconcetti, dalla cultura dominante, dagli interessi di questa o quella fazione in gioco, in modo da tracciare un quadro il più possibile rispondente alle reali esigenze dell’umanità nel suo complesso. Ma questo non è sufficiente. Deve assumere un ruolo “sovversivo”. Nel corso della sua storia centenaria, credo che la Massoneria abbia dato il meglio di sé non solo quando ha interpretato correttamente la natura dei problemi, ma quando, grazie a questa corretta interpretazione, si è impegnata nella diffusione di idee forti, di orientamenti capaci di trasformare e definire un’epoca. Al di là di potenziali azioni contingenti, in cui ogni adepto può comunque impegnarsi a titolo personale collaborando con una delle tante associazioni esistenti, come ad esempio l’assistenza ai rifugiati, trovo che come forma-pensiero la Massoneria possa manifestarsi pienamente nell’affrontare le sfide epocali che richiedono un cambio di paradigma culturale. Penso al contributo che ha dato, ad esempio, alla formazione e alla diffusione del pensiero illuminista, da cui sono nati i moderni Paesi liberali, alla stesura della Carta dei Diritti dell’Uomo, alla creazione di organizzazioni come la Società delle Nazioni prima e l’ONU dopo, al Risorgimento italiano e così via. Pietre miliari nella storia dell’umanità, che hanno richiesto l’impegno di generazioni di uomini.

Anche oggi ci troviamo di fronte a una sfida generazionale, e la migliore risorsa che abbiamo a disposizione per affrontarla, quella che a lungo termine potrebbe dare maggiori garanzie di successo, passa attraverso l’educazione dei giovani, perché sono i più adatti ad accogliere nuove idee.

Il grande scienziato Niels Bohr, uno dei padri della meccanica quantistica, diceva che le nuove idee non si impongono perché gli scienziati riconoscono all’unanimità la loro validità, ma perché le nuove generazioni le assorbono mentre crescono.

La Dichiarazione del Millennio delle Nazioni Unite, ratificata nel 2000 da 186 capi di Stato e di governo durante la sessione speciale dell’Assemblea Generale dell’ONU, indica gli otto obiettivi principali da perseguire, i Millennium Goals; il secondo punto, dopo il dimezzamento della povertà e della fame, è la garanzia di un’istruzione di base universale.

Ecco un obiettivo degno della Massoneria: sostenere lo sviluppo di programmi di studio omogenei che privilegino il senso della convivenza, della cooperazione e dello scambio culturale, la pari dignità dei popoli, l’interazione tra le persone, in modo che le future generazioni possano crescere sentendosi coinvolte nel più ampio consesso umano piuttosto che cittadini di un singolo Stato, e possano anche riconsiderare le modalità di convivenza socio-economica per eliminare gli squilibri oggi esistenti.

Affinché tutto non rimanga una mera intenzione, un primo importante passo che potremmo compiere a livello europeo è quello di utilizzare un’iniziativa legislativa popolare: realizzare una campagna di raccolta firme nei Paesi dell’UE per sostenere un progetto di legge che il Parlamento europeo avrà poi l’obbligo di analizzare e mettere in discussione.

Questa proposta di legge potrebbe essere chiamata “Carta di Montebelli”, con la quale non solo si promuove la standardizzazione dei programmi di studio per creare basi culturali comuni per le future generazioni, ma si prevede anche un periodo di frequenza obbligatoria nelle scuole di altri Paesi dell’UE per gli studenti delle scuole superiori, per favorire la crescita di veri cittadini europei.

Sarebbe solo un primo passo, certamente non definitivo né conclusivo, ma significativo per le prospettive che aprirebbe. Mi rendo conto dell’enormità dell’impegno, ma anche la posta in gioco è estremamente importante, perché potrebbe diventare una fonte importante del futuro di convivenza pacifica e benessere diffuso che abbiamo auspicato. Un impegno e una sfida che la Massoneria può non solo accettare ma anche vincere, purché lo voglia davvero.

Così ho detto…

B∴ A∴ T∴