Oltre Babele

Facebook
Twitter
WhatsApp
Telegram
Skype
Email

Caro lettore nella forma di saluto appropriata!

“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio. […]Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui; e senza di lui non è stato fatto nulla di ciò che è stato fatto”.

Il prologo del Vangelo di Giovanni, uno dei libri sacri della Massoneria, da un lato identifica Gesù con il Logos divino, dall’altro testimonia la sua umanità.

Tutto ciò che Gesù dice e fa è parola di colui che è il Verbo eterno, è un segno che rimanda all’incarnazione del Verbo nel Cristo fatto uomo.

Non è un caso che in ebraico la parola “dabar” indichi allo stesso tempo “parola” e “atto”, “evento”: è la parola che si realizza e diventa realtà. Come in “Dio disse: ‘Sia la luce’ e la luce fu”: la parola divina esprime l’opera del Creatore, è una parola creativa, una parola che diventa atto nel momento stesso in cui viene pronunciata.

Il concetto di Parola o Suono generatore, capace di creare ex nihilo, si ritrova anche in altre culture: ad esempio, la parola “Abracadabra” deriva dall’aramaico “Avrah Kadabra”, che significa “Creerò ciò che dico”, “Creerò come parlo”.

Nella religione induista, che deriva dal brahmanesimo e dai testi sacri dei Veda, scopriamo la sillaba, o meglio il suono “Om”, che è il mantra più sacro e rappresenta la sintesi e l’essenza di ogni mantra, rito, testo sacro o aspetto del Divino.

L’Om è considerato il suono primordiale che ha dato origine alla creazione, creazione che viene interpretata come la manifestazione stessa di questo suono. Dall’Oṃ proviene la conoscenza sacra, la triplice: Oṃ è il Brahman, Oṃ è l’intero universo.

Pitagora affermava che “Dio geometrizza” e che “la geometria delle forme è musica solidificata”, come se il suono potesse generare forme sonore e strutturare la materia: come se la materia fosse una forma sonora solidificata.

Logos è dunque la parola creatrice, che si fa carne in Cristo; ma prima ancora, nella cosmogonia ebraico-cristiana, tramandata nel Libro della Genesi, il Logos si incarna nel risultato finale della Creazione: l’uomo.

La creazione di Adamo ed Eva “a immagine e somiglianza di Dio”, la permanenza nel Paradiso Terrestre e la successiva cacciata dall’Eden rappresentano infatti il primo grande mito della separazione.

Secondo tutte le tradizioni dell’umanità, in forma velata o esplicita, l’attuale condizione umana di sofferenza e degrado è il risultato di un dramma cosmico: il dramma dell’oscuramento intellettuale dell’Uomo Spirituale, l’Adam Qadmon della Cabala ebraica, l’Uomo Universale dell’esoterismo islamico, che è, all’origine, il libero signore della creazione. È ciò che la tradizione cristiana exoterica descrive come il “peccato originale”, la disobbedienza.

La separazione deriva infatti da un atto di disobbedienza: Adamo mangia il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, disobbedendo a Dio che glielo aveva proibito, poiché la conoscenza del bene e del male lo avrebbe di fatto reso uguale a Lui.

Ma questo atto di disobbedienza può essere visto anche come un estremo atto di coraggio nella ricerca della Verità, forse il primo di una lunga serie di azioni che hanno caratterizzato il cammino dell’Uomo, cacciato dal Paradiso e costretto a vivere sulla Terra: un cammino che, come vedremo, non ha altro scopo che la costante ricerca della Verità e il ritorno all’Uno indiviso.

L’uomo ha ancora una scintilla di luce divina che lo rende capace di ricevere il Logos, di comprendere, o meglio, di percepire il messaggio che gli permette di riprendere coscienza della sua profonda natura luminosa e di ripristinare il suo stato originario di Uomo Spirituale libero e indiviso.

E così arriviamo al secondo mito di separazione, fondamentale per il cammino dell’Umanità, rappresentato dalla Torre di Babele: prima di Babele, ci dice il mito, tutti gli uomini sulla Terra parlavano una sola lingua e usavano le stesse parole.

Il mito narra che gli uomini emigrarono dall’Oriente verso una pianura nel villaggio di Sennaar e vi si stabilirono; decisero di costruire una città e una torre per raggiungere il cielo, in modo da farsi un nome e non disperdersi sulla Terra.

Ma ancora una volta Dio intervenne e confuse la loro lingua, facendo sì che le persone non si capissero più: Dio li voleva sparsi per tutta la Terra.

In questo mito ritroviamo il tema della divisione, come se Egli, dopo aver intrappolato l’umanità sulla Terra, volesse impedirle di ricongiungersi (religio, in latino) con l’Onnipotente: la costruzione della Torre non è altro che il tentativo dell’uomo di “aspirare al Cielo” già durante la sua vita terrena o, in altre parole, di confrontarsi con Dio.

Vale la pena ricordare che la Torre di Babele è chiamata in sumero Etemenanki, il cui significato originale è “casa delle fondamenta del Cielo e della Terra” o anche “pietra angolare del Cielo e della Terra”.

In un’interpretazione più coerente con la visione massonica, potremmo dire che il Dio descritto nella Bibbia punisce gli uomini, disperdendoli ai quattro angoli della Terra, perché hanno cercato di posare la pietra angolare della Torre, o Tempio, destinata a riunire Terra e Cielo.

La caduta dell’Eden e la diaspora dopo Babele sono dunque due miti fondamentali di separazione raccontati dai testi sacri, accomunati dal significato allegorico di punizione per un atto di disobbedienza: l’Uomo che vuole essere come Dio, o forse direi l’Uomo che vuole ricongiungersi a Dio, che vuole trovare il Divino dentro di sé.

Entrambi in realtà, ovviamente rimanendo all’interno del mito e senza alcuna osservazione teosofica e religiosa, sono forieri di effetti straordinari: dalla caduta di Adamo ed Eva sulla Terra nasce l’Umanità, mentre dalla diaspora di Babele nascono lingue, culture, etnie, nazioni. Un percorso di separazione, quindi, che non solo è necessario, ma che ha dato origine a una delle più grandi ricchezze dell’Umanità: la diversità, la molteplicità.

Come sempre accade, se da un lato inizia un percorso di divisione, differenziazione, individualizzazione, dall’altro inizia un percorso molto più complesso e lungo di riunificazione, di ritorno dai molti all’Uno.

Nel corso del tempo, la Società Profana ha spesso cercato di creare artificialmente lingue universali, cioè in grado di essere comprese da tutti al di là delle barriere linguistiche. Per esempio, possiamo citare il denaro: ha un suo linguaggio universale, un insieme di regole precise condivise a livello globale che permettono a tutte le valute del mondo di parlare tra loro, in tutti i Paesi del mondo, 24 ore al giorno, 365 giorni all’anno.

Allo stesso modo, dopo il fallimento dell’esperanto, la Società Profana ha eletto la lingua inglese come lingua standard de facto a livello mondiale: sebbene non sia la più diffusa al mondo, solo terza dopo il cinese mandarino e lo spagnolo, è certamente la lingua più funzionale a questo scopo. Innanzitutto perché è la lingua di riferimento del modello economico egemonico globale, di matrice americana e anglosassone, e poi perché è una lingua semplice o, per meglio dire, difficile da parlare bene ma facile da parlare in modo semplificato.

E quindi è perfettamente adatto a questo scopo.

In poche parole, la Società Profana ha scelto come lingue universali quelle che hanno la struttura di un protocollo: sistemi di regole condivise, comunemente adottate da tutti, che permettono alle persone, ma meglio ancora alle macchine, di comunicare tra loro.

Ecco il punto: i linguaggi universali della Società Profana sono strumentali. Non sono nati per aiutare gli uomini a capirsi meglio, a comunicare pensieri, sentimenti ed emozioni. Non mirano al dialogo, alla comprensione reciproca, all’empatia, e quindi a unire gli uomini e a farli diventare tutti più uguali, liberi e infine Fratelli.

Al contrario, sono stati progettati con l’unico scopo di scambiare informazioni, necessarie al mondo profano per funzionare secondo i modelli, le regole e soprattutto i limiti imposti dai modelli economici dominanti che si sono succeduti nel tempo.

Questo è il motivo e il limite del fallimento dei linguaggi universali profani: non riuscire ad andare nel profondo dell’anima umana per cogliere e comunicare l’essenza, che non risiede nel linguaggio della mente ma in quello dello spirito.

Tuttavia, ci sono alcuni linguaggi universali che riescono in questo intento: per esempio la Musica, come abbiamo sperimentato tutti di persona ieri sera. La musica si esprime in un linguaggio che supera le distinzioni di lingua, cultura, nazione: si dice che la musica jazz sia nata nei tuguri di New Orleans perché lì le persone parlavano cinque lingue diverse e non riuscivano a capirsi, e l’unico modo per comunicare era il jazz.

La musica sa arrivare a tutti attraverso percorsi ancora in parte sconosciuti, ma che passano attraverso la nostra essenza profonda, attraverso ciò che siamo veramente, al di là di ogni sovrastruttura: La musica è il filo che cuce la mente al cuore.

Anche il linguaggio del corpo è universale, soprattutto nella sua massima espressione rappresentata dalla sessualità. Una sessualità sacra, che individua nel rito sessuale una fonte di energia, come nei rituali tantrici che utilizzano questa energia per “fondere” il duale nell’uno, o una riscoperta del potere creativo, rigenerativo e trasformativo dell’atto sessuale come nel Culto della Grande Madre, che collegava i riti sessuali ai riti di fertilità della Madre Terra.

Non è un caso se la Società Profana nel tempo ha demonizzato e mercificato l’atto sessuale, tanto da far perdere agli uomini il contatto con la parte divina che la sessualità sacra ci permette di riscoprire.

E poi c’è il linguaggio delle azioni. Un’azione è molto più difficile da fraintendere: mentre un discorso può essere strumentalizzato, e anche la traduzione del proprio pensiero da una lingua all’altra può tradire il significato originale, un’azione parla da sé senza bisogno di decodifica, rivelando così nel gesto sia l’intento che il destinatario e, infine, il modo.

Come abbiamo già detto, quando la parola diventa atto, tutto diventa chiaro, tutto diventa luce.

Vorrei fermarmi un attimo, in questo percorso, rivolgendo un pensiero a tutte quelle azioni che con la loro chiarezza di intenti illuminano come Luce Pura la nostra vita, come azioni che hanno il potere di spazzare le ombre del dubbio e mostrare al mondo ciò che spesso è invisibile.

Vorrei che il nostro pensiero andasse a tutti i Fratelli che, a costo dell’estremo sacrificio, spinti dal senso del dovere e sostenuti dal coraggio che, se è raro tra gli uomini, non lo è tra i F˙. M.˙., danno la vita per salvare gli innocenti; vorrei che il nostro pensiero, per un minuto, ** se l’Oriente è d’accordo **, andasse oggi a Fratel Arnaud Beltrame della R.˙.L.˙. Jerome Bonaparte all’Oriente di Rueil-Nanterre, Francia.

E, di fondamentale importanza per noi F.˙. M.˙., c’è il linguaggio dei simboli: un linguaggio a noi ben noto, poiché tutto nella nostra Fratellanza è simbolico, tutto è fatto di simboli: usiamo simboli e gesti rituali per riconoscerci “dai segni che mostriamo”, e ancor più per comunicare tra noi.

I simboli hanno origine da qualcosa che è stato diviso per essere riassemblato. A volte, però, un simbolo si manifesta apparentemente nella sua interezza, allora perché lo chiamiamo simbolo?

Perché la chiave di decodifica, cioè l’altra parte del codice, quella sconosciuta, è nella saggezza del F.˙. M.˙. che è stato iniziato e poi istruito a riconoscere il simbolo. Una parte del simbolo è ciò che si ha, cioè ciò che è visibile; l’altra parte è qualcosa che si conosce, o meglio che si riconosce.

Il rituale stesso, lungo i tre gradi della Massoneria Blu, è un simbolo agito: lo stiamo vivendo oggi perché il nostro rituale è fatto di gesti, suoni, ritmo ancor più che di parole. Noi tutti, che oggi siamo insieme in questo luogo simbolico in sé, stiamo già andando oltre Babele perché il rito che pratichiamo è un simbolo agito e trascende le lingue in cui si esprime.

Qual è dunque il cammino che il F.˙. M.. deve percorrere nella sua esperienza iniziatica per andare oltre Babele? Qual è il percorso che porterà gli uomini a riconoscersi come Fratelli, tutti appartenenti alla stessa Famiglia, alla stessa Umanità, allo stesso Noi che può finalmente superare l’individualizzazione e andare oltre l’Ego?

Abbiamo già visto che i linguaggi universali della Società Profana non possono raggiungere questo obiettivo: sono stati concepiti secondo una logica razionale, ma la conoscenza razionale è divisiva, perché lavora per analisi, e quindi ogni tentativo di cercare l’unità con la sola forza della ragione è destinato a fallire.

Al contrario, la conoscenza intuitiva è unificante, perché ragiona per sintesi: quindi il percorso esoterico che supera l’Io, la separazione, la Babele degli uomini deve necessariamente passare attraverso il Noi, la consapevolezza di appartenere alla stessa Umanità, alla stessa famiglia di Fratelli, per ritrovarsi infine nell’Uno indiviso.

Deporre, oliarsi, togliere: come l’iniziato impara a togliere dalla pietra grezza per trasformarla in pietra levigata e poi in pietra cubica, come lo scultore toglie dalla pietra per far uscire la statua nascosta dentro, allora tutti noi F.˙. M.˙. dobbiamo essere scultori di noi stessi. Imparando a togliere tutto ciò che è sovrastruttura per accedere a ciò che è essenza, saremo in grado di scendere di un gradino, da ciò che è linguaggio a ciò che è meta-linguaggio: il simbolo.

Tutti noi F.˙. M.˙., iniziati e istruiti all’Arte Reale, abbiamo come missione primaria la ricerca della “Parola perduta”, e di ricreare nuovamente lo stato adamitico, risorgendo dopo una morte iniziatica come il nostro Maestro-Simbolo Hiram Abiff: così, emulando Hiram, costruttore del Tempio di Gerusalemme, possiamo ricostruire la sede della Luce e il nostro Tempio interiore all’interno del nostro corpo.

La parola perduta è il potere di creare: nel momento stesso in cui l’umanità si è separata da Dio, si è perso il vero significato della Parola. E se la Parola perduta non fosse altro che il Logos creatore?

Ritroviamo quindi il messaggio del Vangelo di Giovanni da cui siamo partiti: il Logos si è fatto uomo, la potenza creatrice divina e la sua creatura si ritrovano e si riconoscono come un tutt’uno. La scoperta della “Parola perduta” significa riscoprire se stessi e la vera natura divina nell’uomo, cioè prendere coscienza che Dio e l’uomo condividono la stessa essenza.

Chiudiamo il cerchio: nel nostro viaggio esoterico di ricongiungimento della nostra essenza umana con quella divina, il simbolo si riunisce, permettendoci di essere divinamente umani.

Siamo scarti. Una volta eravamo parte del Tutto e poi ne siamo stati separati. Ma ogni F.˙. M.˙. sa di essere anche lui un simbolo, poiché il suo destino è quello di ricongiungersi al Tutto da cui proviene e che chiamiamo G.˙.A.˙.O.˙.T.˙.U.˙.

In questo ritorno al Tutto, che è la ricerca della Parola perduta, si compie il destino della F.˙.M.˙.: possiamo andare oltre Babele, superare le differenze di lingua, cultura, etnia, andare oltre la separazione originaria e riscoprire il potere di comprendere noi stessi al di là delle lingue quando ci “riuniremo”, riuniremo ciò che è disperso, riconosceremo pienamente la nostra essenza divina e infine troveremo la Parola perduta.

Così ho detto…

B∴ E∴ C∴